di Hisashi Owada
1. Introduzione
Il vertice economico, nato nel 1975 con l'incontro nel Castello di Rambouillet dei capi di stato e di governo di sei grandi potenze economiche occidentali, sta per celebrare il suo ventesimo anniversario con la riunione che si terrà a Napoli nell'estate 1994. Inoltre, se verrà rispettata la prassi in vigore, la sessione del prossimo anno concluderà il terzo ciclo di incontri tra i sette stati membri.
Negli ultimi anni, tuttavia, negli ambienti ufficiali di alcuni governi partecipanti e anche al di fuori di essi si sono levate numerose critiche alle modalità di attuazione dei vertici. E non è mancato nemmeno un certo scetticismo circa la loro reale utilità.
Date queste premesse, è senz'altro opportuno impegnarsi in un esercizio intellettuale per fare un inventario dei risultati dei vertici passati, per valutare obiettivi raggiunti e fallimenti e per esprimere le nostre idee sul ruolo ed il futuro del vertice, secondo il punto di vista dei diversi partecipanti, ciascuno con le proprie percezioni ed aspettative.
2. Gli obiettivi del vertice
Questo saggio non intende risalire alle origini del vertice economico né ripercorrere in dettaglio l'evoluzione storica del processo dei vertici. Sarebbe davvero inutile impegnarsi in un compito del genere quando esiste già una eccellente letteratura in merito.
Basti confermare in questa sede che ciò che sarà poi conosciuto come vertice del G-7 compare sulla scena in determinate circostanze, quando il mondo occidentale risentiva di numerosi gravi problemi economici provocati dall'effetto congiunto di tre avvenimenti: (a) il collasso del sistema monetario di Bretton Woods a seguito dell'annuncio di Nixon dell'agosto 1971, (b) il primo ampliamento della Comunità Europea nel 1973 e (c) la prima crisi petrolifera del 1973. In questo contesto, emersero sin dall'inizio due approcci diversi a quello che fu poi conosciuto come il vertice del G-7. Secondo un primo approccio, proprio di uno dei padri fondatori del G-7, il presidente francese Valéry Giscard d'Estaing, il vertice era visto come un'occasione in cui i leader delle maggiori economie occidentali si fanno carico delle proprie responsabilità economiche e politiche e concertano le possibili linee d'azione attraverso uno scambio di opinioni. L'altro approccio, proprio del Segretario di Stato americano Henry Kissinger, non si limitava a ribadire il nesso tra relazioni economiche e cooperazione per la sicurezza, ma sollecitava anche la creazione di un meccanismo permanente per «seguire periodicamente le direttive politiche emerse al vertice e valutare le ulteriori decisioni che si rendessero necessarie». È singolare il fatto che sin dall'inizio vi fossero queste due diverse scuole di pensiero circa la portata delle questioni oggetto di discussione e circa il quadro istituzionale in cui il vertice si sarebbe dovuto inserire.
È anche opportuno rilevare che nonostante queste differenze d'approccio - che avranno grande rilievo per le nostre considerazioni sul futuro dei vertici - i partecipanti erano d'accordo sul fatto che il vertice dovesse essere una specie di «club di leader di paesi omogenei». Questo fatto costituisce un importante punto di partenza per la nostra analisi sulle finalità e sulla struttura del vertice. La ragion d'essere del vertice, dalla sua nascita sino al giorno d'oggi, è stata quella di garantire un foro - in senso non-istituzionale - dove i capi di governo di paesi affini o che avevano obiettivi comuni e un'uguale percezione dell'ordine mondiale potessero incontrarsi per scambiare riflessioni e informazioni su problemi di interesse collettivo, in modo da fare emergere dalla discussione una comunanza di intenti o un coordinamento politico spontaneo.
Accettando questa linea di pensiero alla base del vertice, se ne possono identificare i tre principali propositi :
Convergenza: tramite scambi di punti di vista e discussioni, per ridimensionare esplicite divergenze di opinione sino a raggiungere un orientamento comune;
Cooperazione: tramite il raggiungimento di accordi su strategie comuni, per affrontare efficacemente e in chiave collaborativa problemi comuni;
Coordinamento: tramite l'avvio di azioni previamentre concertate, per garantire ai leader strumenti più idonei per superare i condizionamenti interni e realizzare una strategia comune.
3. Una valutazione dei vertici del passato
In base a questi criteri, tutti i vertici dal 1975 sino all'ultimo di Tokio nel 1993 possono essere descritti come relativi successi o fallimenti a seconda della misura in cui ciascuno ha raggiunto gli obiettivi prefissati in quel dato momento.
Chi scrive, dopo una valutazione personale di ciascuno dei vertici e da un punto di vista strettamente giapponese, è giunto alla conclusione che il vertice di maggior successo è stato quello di Bonn del 1978. La lista che segue costituisce un tentativo di indicare i cinque vertici più significativi sino ad oggi, per differenti ragioni: Bonn I (1978); Tokio I (1979); Williamsburg (1983); Tokio III (1993); Houston (1990).
Prendiamoli in esame uno alla volta per capire i motivi che li rendono più significativi rispetto ad altri vertici, alla luce dei compiti che ciascuno di essi si è trovato a dover affrontare in quel dato momento storico.
3.1. Il primo vertice di Bonn (1978)
All'epoca del primo vertice di Bonn, il mondo si trovava ancora in grosse difficoltà a causa della prima crisi petrolifera del 1973, dalla quale i paesi industrializzati non si erano ancora completamente ripresi. L'anno precedente, al vertice di Londra (1977) era stata proposta la cosiddetta «teoria della locomotiva», in base alla quale si richiedeva a Stati Uniti, Germania e Giappone di stimolare le economie dei paesi con tassi di crescita inferiori, in modo da dare nuovo slancio all'economia mondiale. Sfortunatamente, gli intendimenti del vertice di Londra non raggiunsero risultati concreti, soprattutto per il fatto che la «teoria della locomotiva» rimase in larga misura uno slogan privo di sostanza e che nessun governo assunse impegni concreti.
Il primo vertice di Bonn riuscì laddove Londra aveva fallito, non tanto perché lo slogan era stato modificato da «teoria della locomotiva» a «teoria del convoglio», quanto piuttosto perché mise d'accordo i maggiori partecipanti sull'adozione di alcune misure concrete, basate su sacrifici reciproci e bilanciati di portata mai vista in precedenza. Il Giappone decise di assumersi la sua parte di responsabilità accettando un obiettivo di crescita annuale del 7% e tentando un rilancio della propria economia che contribuisse alla crescita dell'economia mondiale. La Germania intraprese un'iniziativa simile accettando l'obiettivo di un ulteriore 1% di crescita nella stessa direzione, mentre gli Stati Uniti si dichiararono disposti ad accettare un sacrificio di analoga portata limitando il volume delle importazioni di petrolio, che contribuivano fortemente a peggiorare la propria bilancia dei pagamenti. Il sacrificio fu piuttosto doloroso per tutti: in Giappone ci furono forti proteste contro il Primo Ministro Fukuda che aveva accettato di pagare un simile prezzo nel bel mezzo di una difficile situazione di bilancio, che avrebbe potuto sopportare un simile stimolo solo tramite un enorme finanziamento del deficit.
Tuttavia, non si può negare che questo pacchetto di sacrifici comuni, che dimostravano la determinazione politica dei leader ad affrontare le difficoltà economiche del momento, abbia contribuito negli anni successivi a ridare fiducia nell'economia mondiale.
L'altra impresa notevole del primo vertice di Bonn furono i progressi compiuti per concludere il Tokio Round dei negoziati Gatt, che trassero non poco vantaggio dall'andamento del vertice. A Bonn infatti ebbero luogo importanti trattative dell'ultima ora tra i maggiori negoziatori, Robert Strauss per gli Stati Uniti, Nobuhiko Ushiba per il Giappone e Wilhelm Haferkamp per la Comunità Europea, tutti presenti di persona al vertice ed impegnati nei negoziati per definire concessioni reciprocamente accettabili, previa consultazione con i loro capi di governo. Ancora una volta prevalsero la consapevolezza della crisi in atto, la volontà di condividere le responsabilità e lo spirito di mutuo sacrificio. Tutto ciò contrasta nettamente con quanto accadde due settenni dopo al vertice di Monaco (1992), che nel momento più critico dell'Uruguay Round non riuscì ad affrontare con decisione le pur difficili questioni cruciali e che incoraggiò le critiche più ciniche, come quella che il vertice si era ridotto ad un incontro dove i partecipanti avevano scelto di cantare «My Way».
3.2. Il primo vertice di Tokio (1979)
Il primo vertice di Tokio fu un'esperienza decisamente difficile per il Giappone sia nella sostanza che nella forma. L'economia mondiale risentiva negativamente della seconda crisi petrolifera del 1978-79 e il disordine economico provocato dall'improvviso quanto esagerato rialzo del prezzo del petrolio stava aggravando il problema di come riciclare il dollaro nell'economia mondiale. Si pensò che la soluzione potesse essere di ridurre la domanda di petrolio nell'intero mondo industralizzato. Gli europei nel corso del vertice di Strasburgo, svoltosi un mese prima di Tokio, non erano riusciti a mettersi d'accordo sulla quota di ciascun paese membro, mentre gli americani e i giapponesi erano riluttanti ad accettare limiti troppo restrittivi al loro consumo di petrolio.
Anche questa volta prevalse il sacrificio reciproco, ma in modo assai più conflittuale. Il presidente francese Giscard d'Estaing, dopo il suo arrivo a Tokio, cercò di formare una nuova alleanza con il presidente statunitense Carter per identificare un quantitativo totale di petrolio per l'intero G-7 che fosse accettabile da tutti e calcolato sulla base delle importazioni di ciascun paese nel corso dell'anno precedente.
Con il tacito consenso britannico, tedesco e americano, il presidente Giscard d'Estaing si preparò a fare una proposta sconvolgente alla sessione plenaria del vertice, senza prima consultarsi con tutti i partecipanti. Il Primo Ministro giapponese Masayoshi Ohira, che presiedeva la riunione in qualità di leader del paese ospitante, fu colto di sorpresa da una proposta che - come rappresentante del Giappone - non poteva avallare. Anche il presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti protestò energicamente e minacciò di lasciare la sala della conferenza se la proposta fosse stata imposta all'Italia.
Date le circostanze, si può affermare che la soluzione proposta al primo vertice di Tokio fosse necessaria per salvare l'economia mondiale; l'esito fu positivo perché si raggiunse un accordo e tutti i paesi del G-7, in misura diversa, furono spinti ad accettare la loro parte di sacrificio.
Tuttavia, il modo in cui si ottenne questo risultato e in particolare la procedura seguita per elaborare la proposta non fu certo encomiabile: i risultati, per quanto legittimi, furono imposti ad alcuni paesi membri senza adottare un metodo di persuasione più oculato, finalizzato ad una piena accettazione dei sacrifici necessari e ad una convergenza di posizioni.
In tal senso, il primo vertice di Tokio fu importante e significativo se valutato in base ai risultati ottenuti, ma fu carente come processo diretto a perseguire una politica consensuale e coordinata.
3.3. Il vertice di Williamsburg (1983)
Il vertice di Williamsburg del 1983 ebbe un successo sui generis, non tanto per avere imposto dei sacrifici quanto piuttosto per avere riunito le forze in un unico fronte per affrontare una crisi percepita da tutti. Per tale ragione dovrebbe essere visto come uno dei vertici più significativi.
È bene ricordare che durante il vertice di Versailles dell'anno precedente si era tentato senza successo un approccio troppo ambizioso ad alcuni dei problemi più controversi, come le sanzioni economiche all'Unione Sovietica, in un'atmosfera priva di una percezione comune della crisi e in cui si era poco propensi ad accettare sacrifici. Memori del fiasco di Versailles, a Williamsburg i partecipanti ritennero opportuno impegnarsi in un'opera di ricostruzione che rinsaldasse il senso di solidarietà. In effetti, la divergenza di interessi evidenziatasi a Versailles con la rottura tra Francia e Stati Uniti aveva pregiudicato in modo serio e pericoloso la solidarietà tra i paesi dell'allenza occidentale. Era dunque importante che il G-7 riaffermasse la propria solidarietà in un ampio contesto di alleanza per la sicurezza dell'Occidente. Il vertice di Williamsburg fece esattamente questo: rafforzò lo spirito di collaborazione - cosa che non richiese troppi sacrifici e quindi fu più facile da ottenere che in altri casi - di fronte alla minaccia di un pericolo imminente dovuto alla decisione sovietica di dispiegare i missili SS-20 in Europa e in Asia. Lo slogan «la sicurezza è indivisibile» ebbe successo nell'accomunare gli interessi di tutto il G-7, facendo di Williamsburg uno dei vertici più politicamente orientati della storia.
3.4. Il terzo vertice di Tokio (1993)
L'ultimo vertice di Tokio - Tokio III (1993) - non va annoverato tra i più spettacolari e tuttavia può essere considerato uno dei vertici di maggiore successo per i risultati ottenuti.
I capi di governo si proponevano di affrontare nel corso del vertice tre argomenti principali. In primo luogo, come gestire in modo efficace il problema degli aiuti alle riforme in Russia; secondariamente come far fronte alla grave recessione del mondo industrializzato dove un livello intollerabile di disoccupazione stava scuotendo il tessuto sociale dei paesi interessatii; in terzo luogo, come restituire credibilità ai leader del G-7 stimolando la loro volontà e capacità politica per portare a buon fine entro il 1993 l'Uruguay Round dei negoziati Gatt.
Il primo problema - l'assistenza alla Russia - non era un punto su cui poter raggiungere facilmente un consenso significativo. Era difficile ottenere una convergenza di prospettive politiche tra i membri del G-7 sulla Russia in un nuovo contesto mondiale dal quale erano scomparse le preoccupazioni per la sicurezza date dalle tensioni Est-Ovest che avevano costituito un fattore unificante e dove ogni membro del G-7 tendeva a modellare la futura Russia secondo schemi propri legati ai particolari interessi geopolitici. Da un lato, molti paesi europei membri del G-7 consideravano quella degli aiuti alla Russia una questione che non consentiva altre scelte, dal momento che il fallimento della presidenza Eltsin avrebbe significato una catastrofe per l'Europa, indipendentemente dall'efficacia che gli auti avrebbro potuto avere. I giapponesi d'altra parte tendevano a vedere la situazione in modo più distaccato, sostenendo che se non vi erano le condizioni favorevoli per un successo e se l'assistenza offerta non fosse stata ben utilizzata, si sarebbero semplicemente sprecate ingenti somme di denaro, Gli americani, in particolare durante l'amministrazione Bush, avevano avuto inizialmente un approccio prudente non molto diverso da quello giapponese; ma quando nel paese aumentarono le critiche verso questo atteggiamento troppo passivo di fronte alla prospettiva storica di una trasformazione mondiale, la nuova amministrazione Clinton cambiò posizione e divenne molto più determinata nell'offrire aiuti a Eltsin quale rappresentante delle forze democratiche in Russia.
In tale contesto, il terzo vertice di Tokio rappresentò un chiaro esempio della capacità del G-7 di elaborare una strategia comune e di trasformare le divergenze politiche frutto di una divergenza di opinioni in un consenso politico basato su una comune percezione della situazione in Russia. Per attuare questa trasformazione e identificare misure concrete e realmente efficaci, era importante avviare un dialogo approfondito tra gli esperti del G-7 a livello di sherpa ed una discussione strategica tra i membri del G-7 a livello di ministri, senza cedere alla facile tentazione di manifestare un sostegno politico di mera facciata. Da questo punto di vista, per il successo del terzo vertice di Tokio fu senza dubbio più importante la conferenza dei ministri degli esteri e delle finanze del G-72D1 che si tenne sempre a Tokio nel mese di aprile che non un incontro straordinario del G-72D1 a livello di vertice, come avrebbero voluto alcuni leader europei.
Apparve ancora più difficile individuare ricette efficaci per affrontare il secondo problema, quello della stagnazione economica in gran parte del mondo industrializzato. Tokio III ottenne un risultato degno di nota riuscendo ad identificare e ad inserire nella Dichiarazione economica gli obiettivi che ognuna delle tre componenti regionali del G-7 - Europa, Nord America e Giappone - avrebbe dovuto perseguire. Vero è che si trattò di un risultato sulla carta più che nella realtà dei fatti, soprattutto se paragonato ai successi ottenuti durante il primo vertice di Bonn del 1978, quando Germania, Stati Uniti e Giappone si erano impegnati pubblicamente a fare sacrifici molto più concreti, Tuttavia anche l'esito modesto di Tokio III è stato apprezzato e valutato positivamente rispetto ai magri risultati del vertice di Monaco dell'anno precedente che, in circostanze analoghe, non aveva saputo affrontare il problema ed era stato ironicamente soprannominato il «vertice di Frank Sinatra».
Anche riguardo al terzo problema - come dare impulso ai negoziati dell'Uruguay Round - il vertice di Tokio è riuscito laddove il vertice di Monaco aveva fallito, preparando il terreno per una positiva conclusione delle trattative. Durante gli anni precedenti, in particolare dal terzo vertice di Londra del 1991, i capi di governo avevano subito una grave perdita di credibilità a causa dell'Uruguay Round, essenzialmente per il fatto che nonostante le dichiarazioni di impegno a concludere il negoziato entro l'anno, i leader non avevano fatto nessuno sforzo concreto per raggiungere tale obiettivo né durante il vertice né successivamente. Questa volta, a Tokio, i membri del G-7 fecero del loro meglio per realizzare progressi importanti in una delle aree cruciali del negoziato. Questo passo avanti, unito all'impegno personale dei leader del G-7, fu decisivo per rendere più credibile il seguito della trattativa. Il tema prescelto a questo scopo fu l'accesso ai mercati. L'argomento fu dibattuto ampiamente alla vigilia del vertice di Tokio (in modo non dissimile da come lo era stato al primo vertice di Bonn) e l'accettazione di un pacchetto di sacrifici comuni da parte della Comunità Europea, degli Stati Uniti e del Giappone consentì la svolta verso la conclusione definitiva dell'Uruguay Round nel mese di dicembre.
Possiamo dunque annoverare il terzo vertice di Tokio tra i successi della storia dei vertici per essere stato in grado di adottare, con sacrifici da parte di tutti, una strategia comune su una questione importante.
3.5. Il vertice di Houston (1990)
Il vertice di Houston si svolse in un'atmosfera di relativa calma sul fronte economico. Benché la ripresa negli Stati Uniti fosse ancora lenta, Giappone ed Europa stavano ottenendo risultati economici estremamente significativi e non vi erano questioni controverse di politica economica che i partecipanti al vertice dovessero discutere. Gli avvenimenti dei mesi precedenti, la caduta del muro di Berlino ed il crollo dell'impero sovietico nell'Europa centro-orientale, avevano provocato grande euforia ed ottimismo per il futuro politico mondiale. In tale situazione era naturale che il vertice di Houston - un mese prima della crisi del Golfo, che scosse il mondo e modificò questa visione ottimistica - fosse caratterizzato da grandi speranze e aspettative per un nuovo ordine internazionale.
L'argomento più importante, sul quale era necessario un coordinamento tra i membri del G-7, era l'atteggiamento da tenere nei confronti della Cina dopo la tragedia di Tienanmen. La questione era delicata nella misura in cui rischiava di sfociare in una controversia esplosiva molto simile a quella del vertice di Versailles sulle sanzioni economiche all'Unione Sovietica. Molto dipendeva dal tipo di consenso che il G-7 avrebbe saputo creare su un atteggiamento comune verso la Cina, dopo che il precedente vertice di Parigi aveva espresso un'unanime condanna e adottato delle sanzioni contro la brutale soppressione delle libertà da parte delle autorità cinesi. Anche questa volta, come per le sanzioni economiche all'Unione Sovietica adottate a Versailles, c'era una divergenza di opinioni tra i membri del G-7 circa la natura degli avvenimenti di Tiananmen e l'atteggiamento da tenere verso la Cina. Inoltre, le diverse valutazioni politico-strategiche, frutto delle diverse prospettive dei paesi del G-7 sulle implicazioni geopolitiche del ruolo della Cina per la regione e per il mondo intero, tendevano in questo frangente a determinare un diverso approccio nei confronti del problema.
Il vertice di Houston portò ad una convergenza tra queste diverse percezioni e orientamenti, tanto che venne raggiunto un consenso sull'atteggiamento politico da tenere nei confronti della Cina. In sostanza, si convenne sull'opportunità di non lasciare che la Cina si isolasse dalla comunità internazionale, pur ribadendo alla laedership cinese che la repressione di Tienanmen era assolutamente inaccettabile ed imperdonabile. Questa politica, che da un lato insisteva sulla necessità di salvaguardare fondamentali norme di condotta e dall'altro puntava sulla moderazione incoraggiando il governo cinese a procedere verso le riforme e l'apertura al contesto internazionale, intendeva indurre la Cina ad imparare la lezione di Tienanmen e a non ripetere lo stesso errore, perseguendo la via del progresso economico e delle riforme politiche, per aprire maggiormente la società cinese al mondo esterno.
Il vertice di Houston fu dunque uno dei più significativi per aver realizzato un simile coordinamento al massimo livello.
4. I principali temi per l'agenda dei vertici futuri
Alla luce di queste esperienze, è opportuno analizzare rapidamente quali dovrebbero essere i principali argomenti all'ordine del giorno a Napoli e ai prossimi vertici. Tra le numerose importanti questioni che potrebbero essere oggetto di discussione, quelle prioritarie sono cinque: il coordinamento macroeconomico, la Russia, la strategia per lo sviluppo, le politiche commerciali dopo la conclusione dell'Uruguay Round e i temi politici.
4.1. Il coordinamento economico
Negli ultimi anni è ormai diventato un luogo comune che l'efficace meccanismo di coordinamento economico creato nel dopoguerra, basato sul sistema monetario di Bretton Woods, abbia smesso di funzionare e sia arrivato al collasso dopo l'introduzione di un sistema di cambi flessibili. Con questa premessa, si è arrivati ad affermare che non bisogna aspettarsi un vero coordinamento globale in campo macroeconomico attraverso il meccanismo del G-7.
Al contrario, proprio a causa della perdita di efficacia del sistema di Bretton Woods, diventa più importante che mai un coordinamento a livello macroeconomico tra le maggiori economie industriali. La sempre maggiore interdipendenza tra le economie ha reso ormai antiquata una politica economica condotta autonomamente dai singoli paesi. Le principali economie industriali hanno bisogno di un maggior coordinamento sia a livello macroeconomico che microeconomico, nonché di politiche strutturali.
Inutile dire che il vertice costituisce la più importante occasione per potenziare ed ampliare il coordinamento. La «doppia strategia» adottata al terzo vertice di Tokio ne costituisce un esempio significativo. Questa strategia si propone di ridurre la disoccupazione mediante una combinazione di interventi macroeconomici e strutturali.
4.2. L'assistenza ai tentativi di riforma in Russia
Sembrerebbe ovvio considerare la fine della Guerra Fredda come la causa di tutti i cambiamenti strutturali che rileviamo nella comunità internazionale. In realtà, la cosa è vera solo parzialmente. Ciò che ha determinato il crollo del regime totalitario guidato dall'Unione Sovietica è stata la sua sistematica incapacità di adattarsi ai graduali ma continui cambiamenti strutturali avvenuti nella comunità internazionale negli ultimi due secoli. In tal senso, la fine della Guerra Fredda è stato piuttosto il risultato di tali cambiamenti che non la loro causa. Il regime politico-economico totalitario dell'Unione Sovietica, privo della flessibilità che solo la libertà e la creatività possono consentire e così chiuso in una visione del potere incentrata sulla forza militare tipica della Guerra Fredda, non poteva convivere con i cambiamenti qualitativi della comunità internazionale, con il progresso scientifico e tecnologico, con lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e dei trasporti, con il sempre più radicato processo di interdipendenza. Il risultato fu il crollo di un regime che si fondava eccessivamente su di un potere politico artificiale e sulla forza militare.
Per questi motivi è estremamente importante che il tema dell'integrazione della Russia nella comunità internazionale compaia nell'agenda dei futuri vertici. La Russia di Eltsin ha intrapreso grandi sforzi riformistici e si sta impegnando in una metamorfosi sistematica del proprio sistema economico e politico e dei propri orientamenti in politica estera. Se la Russia riuscirà a trasformarsi, più che a riformarsi, su questi tre fronti, potrà diventare un alleato dell'Occidente nel comune tentativo di costruire un mondo migliore. I paesi del G-7 dovrebbero garantire un ampio sostegno agli sforzi per le riforme, nella misura in cui la Russia sta attivamente cercando di diventare un nostro partner. Perché ciò avvenga, tuttavia, è essenziale che i nostri aiuti siano orientati nella giusta direzione. Il G-7 dovrebbe continuare questa politica fintanto che la Russia si impegnerà nelle riforme.
Il G-7 deve coordinare una linea politica sulla questione russa, mantenendo un dialogo costante con quel paese e intensificando le discussioni al proprio interno, con lo scopo di raggiungere questo importante obiettivo della sua attività.
4.3. Una strategia per lo sviluppo
Un altro settore che in questo momento storico dovrebbe vedere seriamente impegnati i paesi del G-7 è la cooperazione allo sviluppo.
La fine della Guerra Fredda non significa solo la scomparsa del conflitto Est-Ovest, ma dovrebbe anche significare la fine dei vecchi rapporti Nord-Sud. È innegabile che durante il periodo della Guerra Fredda il problema dello sviluppo risentisse della contrapposizione politica Est-Ovest, per cui il problema Nord-Sud veniva collegato al problema Est-Ovest, benché la maggior parte dei paesi di recente indipendenza del Sud del mondo fosse costituita da ex-colonie dell'Occidente.
Con il crollo del blocco orientale, la perdità di legittimità dell'ideologia socialista e il fallimento del modello economico socialista nella maggior parte dei paesi del Sud del mondo, anche questa concezione è venuta meno. Questo fatto ci fornisce un'opportunità per analizzare la questione dei paesi in via di sviluppo su basi nuove e liberi da condizionamenti ideologici. Il Giappone pertanto propose che il terzo vertice di Tokio si soffermasse a riflettere su una nuova strategia per lo sviluppo, sufficientemente ampia da prendere in considerazione tutti i fattori importanti per lo sviluppo: Oas (Organization American States), investimenti, commercio, annullamento dei debiti dovrebbero essere valutati in modo organico e allo stesso tempo abbastanza differenziato perché gli interventi possano rispondere alle caratteristiche di ciascun paese nei diversi stadi di sviluppo. Il G-7 deve riuscire a concretizzare questi schemi concettuali tramite un impegno ed un sostegno reali.
4.4. La politica commerciale dopo l'Uruguay Round
Il sistema commerciale multilaterale di libero scambio, che è alla base di una solida economia mondiale, dovrebbe uscire rafforzato dalla recente positiva conclusione dell'Uruguay Round. Il Gatt sta per essere sostituito dall'Organizzazione Mondiale per il Commercio, con responsabilità molto più ambiziose che vanno oltre il tradizionale commercio di beni e coinvolgono nuovi settori quali il commercio di servizi ed i diritti di proprietà intellettuale.
È necessario che i capi di governo del G-7 promuovano l'adozione di nuove regole internazionali in questi settori, che corrispondano all'espansione delle finalità del nuovo organismo e delle aree interessate alle transazioni economiche internazionali. Ci si dovrebbe occupare delle implicazioni connesse alle relazioni tra commercio e ambiente e a quelle tra commercio e concorrenza. Per fare questo, possiamo attingere al lavoro pionieristico dell'Ocse.
4.5. I temi politici
Non c'è nessuna garanzia che la comunità internazionale, finita la Guerra Fredda, si stia muovendo verso un ordine più pacifico, democratico e stabile. In effetti, benché sembri paradossale, la fine della Guerra Fredda, che ha determinato la sparizione del conflitto basato sullo scontro ideologico, ha portato alla superficie una pletora di conflitti nazionali e religiosi che erano stati sinora arginati dal regime bipolare e una tendenza all'egemonia regionale legata alle risorse e al territorio.
Nella prospettiva giapponese, questi cambiamenti strutturali assumono un nuovo particolare significato. Il Giappone è diventato un partner importante, capace e desideroso di condividere l'onere del mantenimento di un nuovo ordine internazionale emergente svolgendo un ruolo costruttivo nella dinamica collettiva. Per dare concretezza a questa linea di pensiero è essenziale che vi sia una sede adatta dove la volontà politica possa essere tradotta in pratica. Sfortunatamente, questa volontà giapponese di svolgere un ruolo costruttivo non ha potuto trovare riscontro pratico proprio a causa della mancanza di un meccanismo istituzionale che lo rendesse attuabile.
È vero che nell'ambito degli incontri dei ministri finanziari del G-7 è stato realizzato un coordinamento macroeconomico soprattutto in materia fiscale e monetaria. Tuttavia, resta il dubbio se sia stato attuato un coordinamento sufficiente per la gestione dell'economia mondiale, che comprenda in modo organico sia i fattori macroeconomici in campo fiscale e monetario sia i fattori microeconomici legati al commercio, agli investimenti e all'occupazione. È necessario un livello di integrazione assai maggiore sia riguardo ai settori da coprire sia riguardo alle parti coinvolte nel processo di coordinamento.
Quanto al coordinamento politico, la situazione richiede un'attenzione ancora più urgente. Sfortunatamente il Giappone è al di fuori dei meccanismi istituzionali che regolano il coordinamento tra i maggiori partner del mondo industrializzato: Nato, Ueo, Unione Europea (in particolare la Cooperazione politica europea, Cpe) e Consiglio d'Europa. La sua partecipazione alla Csce - cui è stato ammesso recentemente ed entro determinati limiti - ha avuto un significato poco rilevante data la scarsa efficacia di questo organismo come effettivo centro di coordinamento politico; inoltre, il fatto che sia stato ammesso solo in qualità di ospite ha fortemente limitato ogni possibile impatto del Giappone nel processo politico della Csce.
Date queste circostanze, è facile capire perché il vertice abbia assunto per il Giappone un particolare significato per la continuità di un coordinamento politico sulle principali questioni mondiali di interesse comune. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità dell'affermazione, fatta da alcuni, che questo interesse equivalga ad un tentativo di fare del G-7 il direttorio politico del mondo. In realtà, se si esamina la storia dei vertici, si trovano casi evidenti in cui questo coordinamento politico ha svolto un ruolo estremamente costruttivo; il vertice non ha mai rischiato di cadere nella trappola di autodesignarsi direttorio politico per il mondo intero. Ad esempio, sia le linee politiche enunciate dalla Francia ai tempi del primo vertice di Tokio sulla questione mediorientale e sul terrorismo internazionale sia la posizione assunta dal G-7, sempre su iniziativa francese, al vertice di Parigi del 1989, in relazione agli eventi di Tienanmen, hanno svolto un'importante funzione. Anche il coordinamento raggiunto a Houston sulla questione cinese, dopo le sanzioni dell'anno precedente, fu veramente utile nella misura in cui consentì un approccio univoco basato su un comune orientamento verso la Cina, frutto del superamento di divergenze che altrimenti avrebbero potuto persistere. Il caso della Cina al vertice di Houston dimostra ampiamente la validità delle argomentazione sin qui sostenute, in base alle quali il processo dei vertici risponde ad uno scopo importante: favorire il superamento di divergenze nell'interpretazione e valutazione dei fatti ed il raggiungimento di orientamenti omogenei, come unica premessa per concertare volontariamente azioni comuni.
5. Alcuni problemi organizzativi
L'analisi del passato sintetizzata nel paragrafo 3 servirà da riferimento per un esame del processo dei vertici da un punto di vista funzionale, per farne una valutazione critica e per suggerire possibili miglioramenti. Da questa prospettiva emergeranno una serie di elementi degni di considerazione. Esaminiamo i più salienti.
5.1. Validità dei vertici
Considerato l'andamento variabile dei vertici del passato, la prima questione fondamentale è se il vertice come sistema per coordinare le politiche dei paesi del G-7 vada scartato in quanto poco efficace o non sia più comunque di alcuna utilità.
Attualmente la comunità internazionale sta affrontando grandi cambiamenti strutturali. Il crollo del regime sovietico nel dicembre 1991 simboleggia la fine di un sistema bipolare basato sulla contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Questo significa anche la scomparsa del contesto che ha connotato le relazioni internazionali dalla fine della seconda guerra mondiale, il quale per il momento non è ancora stato sostituito da alcuna nuova struttura capace di garantire pace e stabilità. La realizzazione di un nuovo contesto non sembra essere un compito facile. Dobbiamo a questo punto mettere in discussione la validità stessa del vertice, creato per essere strumento di coordinamento tra i paesi occidentali nell'epoca del confronto bipolare Est-Ovest? La risposta a questa domanda dev'essere un «no» categorico.
Il processo di integrazione della comunità internazionale ha generato in tutte le nazioni il bisogno di confrontarsi con problemi di carattere globale: in particolare la gestione macroeconomica dell'economia mondiale, ma anche altre questioni quali i rifugiati, l'ambiente, la lotta contro l'Aids ed altre malattie mortali, e la lotta a forme di criminalità transnazionali come il terrorismo internazionale e il contrabbando di droga. Soprattutto nel campo economico è diventato impossibile per le singole nazioni operare prescindendo da una prospettiva globale. In tutti i settori sta diventando più forte e radicata l'interdipendenza delle nazioni.
In questo mutato quadro, la natura del nuovo ordine internazionale che sostituirà il vecchio bipolarismo non potrà essere, come sostengono alcuni, di tipo unipolare. E non sarà nemmeno un mondo multipolare che poggi su un equilibrio di potere basato sulla realtà geopolitica. Può esservi solo un ordine mondiale basato sulla cooperazione internazionale tra le principali nazioni che dimostrano la volontà e la capacità di costituire e mantenere tale ordine.
In un sistema del genere e nell'ambito della struttura trilaterale costituita da Asia orientale, Europa e Nord America, la cooperazione tra le democrazie industriali avanzate avrà un ruolo cruciale. Anche volendo considerare la sola sfera economica, l'insieme delle economie di Giappone, Stati Uniti ed Europa totalizza più del 70% del Pnl mondiale. Inoltre la triade formata da Giappone, Stati Uniti ed Europa ha raggiunto il benessere e la prosperità sulla base di valori comuni: libertà, democrazia, legalità e rispetto dei diritti umani. Ora che la Guerra Fredda è finita e che si riconosce l'importanza di costruire un mondo basato su questi valori universali, è essenziale che queste nazioni collaborino strettamente per rafforzare il nuovo ordine internazionale.
Si ha ragione di ritenere che siano questi i motivi che determinano la validità intrinseca del vertice del G-7, in un ordine basato sulla pax consortis e in un'epoca di interdipendenza.
5.2. Composizione e struttura del vertice
Se, come si è detto, la validità del vertice risiede essenzialmente nel suo ruolo di centro di coordinamento tra paesi che perseguono politiche comuni e basate sulla condivisione di valori (cioè la filosofia del club di paesi omogenei), diventa fondamentale la questione della composizione di questo club, perché da ciò dipende la sua fisionomia.
Dobbiamo tenere presente le differenze tra i diversi centri di coordinamento politico nell'era della pax consortis scaturita dalla fine della Guerra Fredda. In particolare occorre considerare la basilare disparità di finalità e funzioni tra le Nazioni Unite ed il G-7; benché entrambi gli organismi perseguano obiettivi di grande utilità nel contesto attuale, essi assolvono questo compito in modo radicalmente diverso. Le Nazioni Unite - organizzazione internazionale a vocazione universale di cui fanno parte in linea di principio tutti i membri della comunità internazionale con la loro molteplicità di interessi, ordinamenti politici, credenze religiose e ideologie - rappresentano un foro di coordinamento e di carattere decisionale in cui si cerca di armonizzare queste differenze tramite dibattiti e prese di posizione. Il suo principale organo per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, il Consiglio di Sicurezza, è dotato di un forte potere esecutivo per agire come direttorio politico della comunità internazionale e dovrebbe vedere rappresentate tutte le maggiori potenze desiderose e capaci di svolgere tale funzione.
Viceversa il vertice del G-7 non è e non dovrebbe essere un'istituzione a carattere mondiale. Presupponendo che le sue caratteristiche principali siano quelle descritte poc'anzi, la sua ragion d'essere è diversa da quella delle Nazioni Unite. Per svolgere le sue funzioni, il vertice non aspira ad avere una rappresentanza universale come le Nazioni Unite che riuniscono tutte le potenze mondiali indipedentemente dalle diverse finalità politiche e scelte di valori. Il vertice del G-7 deve svolgere funzioni molto diverse da quelle assegnate alle Nazioni Unite.
Pertanto sarebbe sbagliato ritenere che la Russia, o anche la Cina, debbano essere automaticamente ammesse a partecipare al G-7 per la sola ragione che sono tra le maggiori potenze mondiali e quindi non dovrebbero essere escluse dal direttorio politico mondiale.
Al contrario, l'integrità e l'omogeneità del G-7 potrebbero essere compromesse dall'ingresso di paesi che rappresentano valori e obiettivi politici diversi, laddove ciò dovesse rendere il G-7 totalmente inefficace nel raggiungimento delle proprie finalità.
Un altro fattore meritevole della massima attenzione e relativo alla composizione e struttura del vertice è il problema di quella che alcuni ritengono essere la doppia rappresentanza dei paesi dell'Unione Europea. La partecipazione della Comunità Europea come entità separata e indipendente dagli altri paesi del G-7 che ne sono membri ha subito una graduale evoluzione, in particolare a causa della natura controversa del problema della doppia rappresentanza. Al primo vertice di Rambouillet non era stata prevista la presenza della Comunità Europea separatamente da quella dei paesi europei partecipanti. Fu al terzo vertice (Londra 1977) che la Commissione venne ammessa a partecipare parzialmente, con il legittimo pretesto che uno dei principali temi di discussione, il commercio, ricadeva nella sua competenza esclusiva.
Successivamente, a partire dal vertice di Versailles del 1982, entrò in vigore una nuova procedura che consentì la partecipazione del capo di governo del paese che deteneva la presidenza della Comunità Europea al momento del vertice. In una certa misura sembrò prevalere l'anomala situazione di una doppia rappresentanza di quei membri del vertice che appartengono anche alla Comunità Europea; Francia, Germania, Italia e Regno Unito sono rappresentati sia dai loro capi di stato o di governo sia dalla Comunità Europea, che a sua volta è rappresentata sia dal presidente della Commissione che dal presidente del Consiglio.
Si potrebbe sostenere che questa anomalia non è poi così sostanziale, visto che il vertice del G-7 non è un organismo decisionale dove una doppia rappresentanza equivarrebbe ad una ingiustizia. Tuttavia, benché il vertice del G-7 non abbia formalmente funzioni decisionali, questa situazione anomala può comunque costituire un problema nella misura in cui anche ai fini di una politica di coordinamento la composizione determina l'orientamento generale della conferenza. Ricordo che uno dei partecipanti statunitensi, durante un vertice, sollevò il problema affermando che «a volte si verifica che sia la coda a dimenare il cane anziché il cane a dimenare la coda, a causa della prevalenza numerica degli europei».
5.3. L'organizzazione del vertice
Un'altra lamentela che ricorre sempre più frequentemente riguarda la «burocratizzazione» del meccanismo dei vertici. I rappresentanti personali dei partecipanti sono stati soprannominati sherpa per la loro funzione di guida che conduce fino al vertice, attraverso una lunga fase preparatoria. Come conseguenza, il momento del vertice si riduce a poco più di una rituale approvazione del lungo lavoro svolto dagli sherpa, che assume la forma di una dichiarazione scritta in gergo burocratico la quale a sua volta rappresenta il prodotto finale degli elaborati negoziati tra funzionari che precedono il vertice stesso.
Per contrastare questa tendenza, uno dei partecipanti ha suggerito che non venga necessariamente preparata una dichiarazione e che gli incontri degli sherpa siano ridotti al minimo, in modo da lasciare ampio spazio alle discussioni a ruota libera tra i partecipanti al vertice. C'è da chiedersi se questo suggerimento non sia basato su un'erronea interpretazione del processo e non abbia implicazioni pericolose.
Anzitutto, è vero che l'eccessiva burocratizzazione del processo preparatorio dei vertici è una questione rilevante, ma questa tendenza è andata peggiorando solo negli ultimi anni. L'indispensabile fase preparatoria che precede il vertice, da utile momento di confronto e coordinamento tra i rappresentanti personali dei partecipanti è diventata un processo burocratico finalizzato agli aggiustamenti linguistici della dichiarazione finale, nel tentativo di smorzare eventuali discordanze di vedute. In questo senso, occorrerebbe rivitalizzare il vertice e migliorarne la funzione di autentico sistema di coordinamento politico.
Ciononostante, è necessaria una certa cautela verso alcune delle proposte di riforma più radicali riguardanti l'organizzazione del vertice. È stato suggerito di lasciare piena libertà ai partecipanti di impegnarsi in una «chiacchierata davanti al caminetto» tra amici, senza alcun preparativo preliminare, come era avvenuto a Rambouillet; è stato detto che il meccanismo dei vertici dovrebbe consentire ai leader del mondo industrializzato di sviluppare rapporti personali; e quindi che il miglioramento sarebbe legato ad una minore preparazione dell'incontro da parte degli sherpa, e così via.
Queste opinioni così radicali si basano su un'erronea valutazione storica, su un'interpretazione in certa misura ingenua delle numerose e complesse questioni che affliggono il mondo attuale e su un approccio semplicistico al meccanismo dei vertici. Per prima cosa non è vero che il vertice di Rambouillet, che può aver mantenuto alcune delle caratteristiche delle «chiacchierate davanti al caminetto» tipiche del precedente «Library Group», non sia stato preceduto da intensi preparativi. Si è trattato di un vertice preparato nei minimi dettagli. In secondo luogo, cosa ancora più importante, molte delle questioni che i leader si trovano a dover discutere, in particolare nel settore economico, sono di natura talmente complessa e presentano aspetti tecnici talmente complicati che è difficile anche solo afferrarne il significato, per non parlare di farne l'oggetto di una significativa politica di coordinamento.
Questi argomenti devono essere oggetto di attente e strutturate analisi prima di essere presentati al tavolo del vertice per un reale coordinamento e un intervento decisionale. Chiacchierare davanti al caminetto per intessere rapporti interpersonali è una cosa, promuovere una vera politica di coordinamento per ottenere dei risultati è un'altra. Non c'è niente di sbagliato nella prima interpretazione del vertice, se non che tenere un vertice per questa sola ragione sarebbe oltremodo costoso e discutibile sotto il profilo costi-benefici. Il vertice deve senz'altro costituire un'opportunità di conoscenza, ma questa non può essere la sua finalità precipua. Per perseguire il secondo obiettivo e farne la ragione essenziale del vertice, è opportuno ed inevitabile impegnarsi in complesse - e non necessariamente prolisse - discussioni sui contenuti a livello degli sherpa, al fine di identificare i problemi, assimilare i fattori importanti e suggerire delle linee direttive per il coordinamento tra i capi di governo. Se vogliamo considerare seriamento il vertice come uno dei pochi meccanismi di coordinamento in un mondo dove la pax consortis basata su una cooperazione effettiva tra i maggiori partner delle democrazie industrializzate è all'ordine del giorno, dobbiamo avere un approccio più strutturato alle molte questioni vitali che sono portate all'attenzione dei vertici, evitando allo stesso tempo le lungaggini burocratiche connesse alla preparazione di un documento che in sostanza non serve a molto.
5.4. L'istituzionalizzazione del sistema del G-7
Un problema legato alla burocratizzazione del vertice, ma non necessariamente coincidente con esso, è l'istituzionalizzazione del G-7 inteso come sistema.
Abbiamo visto che il primo vertice a Rambouillet era stato il frutto più della necessità e della saggezza del momento, piuttosto che di decisioni lungamente ponderate. Non era nemmeno previsto che avesse un seguito. Ma dopo il successo di quell'incontro iniziale, i vertici si sono affermati come un processo permanente e hanno ottenuto un riconoscimento internazionale proprio grazie agli importanti risultati raggiunti a Rambouillet, Bonn I e Tokio I.
D'altra parte, il crollo del sistema internazionale legato alla Guerra Fredda, il cui contesto di confronto bilaterale, con una superpotenza in ciascuno dei due campi, poteva garantire un ordine basato rispettivamente sulla pax americana e sulla pax sovietica, impone una nuova visione dell'ordine internazionale e dei meccanismi per mantenerlo. È inevitabile un ordine internazionale fondato sulla pax consortis che, per quanto imperfetto e fragile, è l'unico possibile in questa fase di transizione. Sulla base di queste premesse, il vertice del G-7 rappresenta l'unica garanzia per il mantenimento della pax consortis tramite la cooperazione dei maggiori rappresentanti del mondo industrializzato. Pertanto dovrà essere consolidato in virtù della sua accresciuta importanza piuttosto che rifiutato in quanto superato e inefficace. Se abbiamo bisogno di questo meccanismo quale strumento dell'impegno collettivo nella gestione dell'ordine politico ed economico internazionale, dobbiamo trovare modi concreti per consolidarlo e farne un centro di vero coordinamento politico e non ridurne l'efficacia rendendolo meno strutturato o facendolo diventare un semplice salotto per chiacchierate davanti al caminetto.
Raggiungere questo scopo non è facile, non solo per i numerosi problemi tecnici e logistici da superare, ma soprattutto a causa delle possibili divergenze filosofiche sulle finalità del G-7. Se lasciamo da parte per un momento il dibattito teorico circa l'opportunità di avere un vertice quale centro di coordinamento politico, è evidente come sia i risultati ottenuti nella gestione macroeconomica - in particolare durante il primo ciclo dei vertici - sia il notevole grado di coordinamento politico raggiunto sulla questione degli aiuti all'Unione Sovietica dimostrino ampiamente l'utilità del G-7 quale meccanismo per affrontare questo tipo di problemi e facilitare il coordinamento tra i paesi partecipanti.
Se si accetta questa valutazione di merito, sarebbe opportuno qualche miglioramento istituzionale per rendere più efficace il meccanismo del G-7. Non si intende con ciò suggerire una ulteriore istituzionalizzazione del G-7 in senso formale. Un'istituzionalizzazione formale che preveda la creazione di un segretariato permanente e altre modifiche strutturali potrebbe portare ad una maggiore burocratizzazione e minore flessibilità, a discapito delle finalità che il G-7 intende perseguire. È necessaria quella che potremmo definire una«istituzionalizzazione informale» dei vertici del G-7, che dia continuità al sistema di consultazione piuttosto che costituire un avvenimento mondano che ricorre ogni anno. Dovremmo evitare in ogni modo di ripetere il principale errore del vertice di Monaco, allorché l'intera sessione si era andata sfortunatamente trasformando in una parata da notte di mezza estate senza alcun risultato tangibile.
Per rendere possibile questa istituzionalizzazione informale senza rischiare una eccessiva burocratizzazione del G-7, due proposte concrete potrebbero essere le seguenti. In primo luogo, in campo economico sarebbe oltremodo consigliabile cercare di stabilire un legame molto più stretto tra il meccanismo dei vertici ed il lavoro dell'Ocse. In fin dei conti, l'Ocse è un'organizzazione internazionale il cui primo obiettivo è di agire come fulcro di coordinamento macroeconomico e microeconomico tra i paesi del mondo Ocse, cioè il mondo delle democrazie industrializzate. Esiste già una connessione abbastanza stretta tra l'Ocse ed il sistema del G-7, nella misura in cui ogni anno il comunicato finale dell'incontro dei ministri Ocse costituisce un punto di riferimento per la preparazione della dichiarazione economica del vertice. Tuttavia, questo legame potrebbe essere esteso sino a coprire un ventaglio più ampio di interessi comuni, arrivando a coinvolgere l'Ocse nella ricerca e nell'analisi delle questioni che il vertice deve affrontare, in modo che il lavoro del G-7 possa essere più solidamente collegato a quello dell'Ocse.
In secondo luogo, in campo politico sarebbe molto opportuno intensificare l'abitudine di utilizzare il contesto del G-7 per un processo continuo di consultazione sui principali temi e orientamenti politici. Questa prassi è stata avviata con esiti positivi già nei primi anni '90, in particolare sulla Cina nel corso dei preparativi per Houston e sulla Russia durante i preparativi per Londra III. E tuttavia questa pratica ha suscitata forti riserve da parte di chi sostiene che così si rischia di trasformare il G-7 in un direttorio politico mondiale. Tali critiche, anche se fondate su una preoccupazione reale, non appaioni giustificate. Se dovessero nascere dalla preoccupazione che un meccanismo permanente di consultazioni troppo intense tra i paesi del G-7 possa pregiudicare la libertà d'azione di ciascuno dei partner del G-7 sui temi politici, si tratterebbe di un timore anacronistico, poiché nella situazione attuale la regola del gioco dovrebbe essere l'impegno collettivo e non l'astensionismo o la libertà di porre dei veti.
Per preservare i nostri comuni valori e mantenere un ordine internazionale che sia fondato su di essi, sarà essenziale intensificare il processo di cooperazione basato sul consenso e sulla comunanza di interessi.
6. Conclusioni
È evidente che siamo di fronte ad una svolta nella ventennale esperienza dei vertici del G-7. Il suggerimento, espresso da molti degli stessi partecipanti, di procedere ad una riforma di questo meccanismo non solo è comprensibile ma anche bene accetto. Occorrerà tuttavia valutare assai attentamente la direzione di tale riforma, sulla base di un'analisi oggettiva e accurata dei vertici del passato. Sarà anche importante considerare la validità e l'utilità del vertice nel contesto di un quadro internazionale in grande evoluzione. Se un ordine basato sul concetto di pax consortis è l'unica alternativa al disordine e alla disintegrazione, sarà necessario riflettere bene sulle modalità di attuazione di tale filosofia, in modo che gli stati non possano perseguire i propri interessi a discapito degli interessi della comunità internazionale. Dovremo stare attenti a non lasciarci deviare verso un gioco a somma negativa, impegnandoci invece nella ricerca di strumenti efficaci per giocare insieme una partita il cui risultato sia positivo.